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Dall’esordio in serie A con i complimenti di Riva alla maglia di Platini. A tu per tu con Paolo Bergamo

Domenica 26 Maggio 2019 — 08:00

Prima calciatore nelle giovanili del Livorno poi l'infortunio e la scelta di diventare arbitro. Bergamo si racconta a Quilivorno.it: dagli stadi al Var, passando per i grandi calciatori incontrati fino alle idee per una Livorno sportiva da valorizzare con tutte le sue eccellenze

di Filippo Ciapini

Quella maglia di Platini appesa tra le mura di casa parla da sola: “1984, Marsiglia: semifinale europea tra Francia e Portogallo, una partita molto sentita. Un episodio controverso, un fallo da rigore all’ultimo minuto continuato però da un gol mi spinse a prolungare il fischio e dare la rete. Platini se ne accorse, oltre ad essere un grande giocatore era molto furbo”.
La partita terminerà 2-1 per i galletti, ma quello che salterà all’occhio sarà lo stesso numero dieci francese che a fine partita, consegnerà a Bergamo la sua maglia. Mica male. Inizia così, con questo aneddoto, il nostro colloquio con Paolo Bergamo, ex designatore arbitrare e arbitro internazionale. Ci riceve nella sua bella casa ad Ardenza.
Bergamo ha toccato varie volte l’Olimpo del calcio sia come arbitro che come designatore, prima di finire nell’inferno dello scandalo Calciopoli durato sette anni: “Non trovo le parole perché mi fa ancora male, non reggevo lo stress, ebbi un infarto, un momento terribile che non auguro nemmeno al mio peggior nemico, grande merito va anche alla mia famiglia che mi ha supportato in tutto e per tutto”. Alla fine la giustizia parlerà chiaro annullandogli il procedimento penale e tutti gli atti giudiziari a suo carico con la sentenza n° 6566/13 del 17/12/2013.
Nato come calciatore e cresciuto nelle giovanili del Livorno, racconterà di come quel periodo di calcio giocato fosse affascinante, un sogno che partita dopo partita diventava sempre reale. Poi il ginocchio fa crac, interessamento dei legamenti, carriera finita. Le grandi storie, però, possono iniziare quando meno te l’aspetti, possono saltar fuori da un periodo buio. Come questo. Bergamo seppe rialzarsi e, trascinato da una fortissima passione per quel pallone che correva, decise di intraprendere una nuova sfida, quella di arbitro. Solitamente la gavetta di un direttore di gara dura dai dieci ai quindici anni, lui ce ne mette sette per il suo esordio in serie A in un Cagliari-Ascoli dove, tra i rossoblu, c’era un certo Gigi Riva “grande giocatore e grande gentiluomo” ricorda l’ex arbitro chiudendo gli occhi. “Mi piace sempre raccontare un aneddoto di quella partita- ricorda Bergamo – A un certo punto capita un tiro vincente con la palla che va a sbattere sulla traversa, poi riga ed ancora traversa e poi non ricordo dove sia andata. A fine partita venne da me dicendo mi auguro che quella palla non sia entrata perché se sarà così la televisione le macchierà un esordio da complimenti. Lo ammetto, fu un colpo di fortuna”.
Fortuna o meno, la carriera da arbitro proseguì spedita con 155 partite dirette in serie A, circa 50 gare internazionali e oltre 16 gare di squadre nazionali. Il tutto condito da svariati premi individuali, da quelli per il miglior arbitro della categoria al premio Mauro, il pallone d’oro degli arbitri. A fine anni Novanta, Bergamo diventerà prima istruttore e selezionatore degli arbitri di serie A e B per proseguire poi come membro della Commissione arbitrale Fifa partecipando come designatore a due Confederation Cup (Francia 2003, Germania 2005), un’olimpiade (Atene 2004), un mondiale (Germania 2006) e altre due coppe del mondo giovanili (2005 Olanda U.20 e Perù U.17).
Adesso Bergamo ha da poco terminato un progetto triennale con la Virtus Entella, ma, schiettamente, non nasconde il rammarico di non aver ancora fatto niente nella sua città: “A Livorno le eccellenze vengono trascurate, ci sarebbero tutti i presupposti per creare un polo sportivo che aggreghi gli atleti di tutto il mondo. Abbiamo della attrezzature, degli spazi da fare invidia e, soprattutto, campioni in ogni sport”.

PAOLO BERGAMO IN AZIONE CON MICHEL PLATINI IN UN FRANCIA PORTOGALLO DEL 1984 TERMINATO 2-1 PER I GALLETTI

Ma partiamo dagli inizi, dalla tua carriera di calciatore…
“Nasco nelle giovanili del Livorno, è il momento più affascinante, come ogni giovane hai i tuoi sogni che partita dopo partita si alimentano secondo la tua passione. Faccio le varie trafile fino a quando il Livorno mi dà in prestito per fare esperienza, faccio Cascina, Pietrasanta, Carrarese e Pesaro. Laggiù, però, ebbi un grave infortunio al ginocchio, mi mandarono a Bologna da uno dei migliori medici in circolazione ma a quell’epoca non c’erano le tecniche adatte per ricostruirlo. Rientrai dopo un anno e tante sofferenze a Cecina dove vinsi il campionato, ma non ero più io, non mi sentivo più a mio agio”.

Poi hai deciso di diventare arbitro…
“Fomentato da una grande passione per il calcio mi avvicinai a questo mondo. Un po’ per il mio carattere e un po’ perché fisicamente ero molto veloce, riuscii a bruciare le tappe ed arrivare in serie A dopo sette anni, nel 1975. È stato il coronamento di un sogno che si materializzava, quel giorno lo ricordo come uno dei più belli della mia vita anche se in quel momento c’era veramente tanta preoccupazione”.

Nel corso della tua carriera chi ti ha impressionato per doti tecniche? Chi era il più rognoso?
Rivera. Calcisticamente parlando ho visto fare delle cose a Rivera che nessun altro sapeva fare, degli stranieri invece Platini e Maradona, secondo me ogni calciatore deve essere valutato nella sua epoca e negli anni Ottanta, Diego è stato il più grande. Il più difficile Giuseppe Furino, capitano della Juventus, centrocampista argine che in un famoso Juventus Roma che tutti mi contestarono perché annullai un gol a Turone, fece un fallo da rosso e lo espulsi. Nonostante la partita di cartello, in quell’occasione, Furino uscì senza fiatare, c’era un’accettazione diversa, non che le partite fossero da camomilla, ecco, però erano ben definiti i ruoli in campo”.

Cosa deve fare un arbitro per farsi rispettare dai calciatori?
“Prima di tutto devi avere un grande amore per il calcio, è il motore che ti dà la forza di andare avanti tra i campetti di periferia. Poi devi sentire dentro di te la voglia di portare un senso di giustizia e un equilibrio sportivo che ti permetta di applicare correttamente il regolamento. Le partite devono essere giocate secondo le regole ed il rispetto, e l’arbitro è l’unico che è in grado di farle rispettare, deve considerare tutti i ventidue giocatori sullo stesso piano”.

Immagino non sia così semplice gestire pubblico e calciatori da solo…
“Assolutamente sì, diciamo che il calciatore ha una squadra con sé e tutti insieme affrontano una gara, oggi specialmente è ancora più riconosciuto il valore del gruppo che se è solido e coeso ottiene risultati. L’arbitro è solo con due assistenti e le responsabilità che senti da quando vieni designato ti possono schiacciare, nel senso che se non hai una forte convinzione di poter fare quello per cui sei chiamato puoi perdere energie fondamentali per la conduzione della gara. Dote primaria è quella di non farsi prendere dalle responsabilità che la gara stessa richiede. La scorsa settimana mi sono incontrato a Viareggio con Lippi e ricordavamo della partita della semifinale a Dortmund del 2006, arbitrata da Archundia, messicano che in un clima terribile dove erano presenti sessantacinquemila tedeschi e cinquemila italiani, fece il miglior arbitraggio dei mondiali. Una partita assolutamente perfetta, dico perfetta perché nelle decisioni in campo era sicuro di non sbagliare, non è facile arbitrare due squadre molto antagoniste fra loro dove una delle due Federazioni è quella che ha organizzato il mondiale, è una situazione terrificante”.

Che ruolo ricopriva in quella manifestazione?
“Fui nominato responsabile della selezione dei nove arbitri europei ed i loro assistenti che hanno partecipato al Mondiale. Qua le responsabilità furono maggiori, ti auguri che i loro operati siano all’altezza perché in caso contrario il primo responsabile è proprio il selezionatore. Fortunatamente le prestazioni del 2006 furono buone, soprattutto quelle dell’italiano Rosetti con i suoi collaboratori Copelli e Stagnoli, impeccabili in ogni gara”.

In quegli anni poi l’ha colpita una vicenda spiacevole, il terremoto Calciopoli…
“C’è da fare un preambolo, a onor del vero, le cose non possono essere negate. Fu un periodo assai difficile nel calcio, pieno di critiche arbitrali sia su stampa che verbali, la Federazione decise insieme all’Aia che fossero due i disegnatori, il sottoscritto e Pairetto. Fu l’unico momento nel quale questa carica veniva ricoperta da più di una persona, e già questo dimostra il clima in cui vivevamo. L’allora presidente di Lega e Federazione pretese che noi designatori fossimo i parafulmini di tutte le proteste della società, fummo dotati di una sorta di telefono aziendale, il cui numero era a conoscenza di tutte le società, perché non potevamo continuare a subire quel tipo di proteste, in caso di problemi noi eravamo lì per giustificare gli eventuali errori arbitrali. Inutile dire che tutti i lunedì e i martedì fummo sommersi di telefonate, noi cercavamo di tamponare gli errori che le società presumevano con spiegazioni tecniche mai andate oltre il lecito. Quel telefono era un mezzo per salvaguardare gli arbitri dal non essere attaccati dalla stampa, in quel periodo facemmo anche una rubrica, chiesta dalla Federazione, dove tutti i lunedì sulla Gazzetta spiegavamo gli errori degli arbitri”.

E poi? Cosa successe?
“In questo clima, stranamente, ci furono indagini seguite a Torino da tre magistrati Caselli, Maddalena e Guariniello, tre nomi di un’importanza massima, che dopo alcuni mesi si riunirono ed archiviarono il tutto perché, a detta loro, non erano presenti alcune irregolarità sia nei sorteggi che nelle telefonate. Tutto quel faldone archiviato fu poi mandato a Roma dove, ancora resta un mistero, per qualche spiegazione illogica ed inusuale venne inviato a Napoli che riaprì l’indagine e fece scoppiare il tutto. Faccio ancora fatica a trovare le parole, fu un inferno durato sette anni (sospira, ndr), in quel periodo non ressi lo stress ed ebbi un infarto perché quando sai di esserti comportato bene e vieni accusato ingiustamente non ce la fai a reggere facilmente tutta quella pressione. Alla fine mi hanno annullato il procedimento, non è andato in prescrizione come molti siti d’informazione riportano, in quel processo non ho ricevuto alcuna squalifica dalla giustizia sportiva e nessuna condanna da quella ordinaria”.

Immagino il sollievo da parte sua dopo quella sentenza. Quale è stata la prima cosa che ha fatto a fine processo?
“Ho telefonato a casa. Dopo aver parlato, mia moglie mi disse di non aver capito niente, non trovavo le parole per spiegarmi, era una sofferenza, sette anni passati dove ogni settimana ero sul treno per andare in udienza a Napoli. Ho fatto per tutta la vita le cose per bene, altrimenti non avrei raggiunto tutti quei traguardi che ho raggiunto, e ritrovarmi in una situazione del genere è stato drammatico, un calvario che non auguro nemmeno al mio peggior nemico”.

E adesso? Cosa fa Paolo Bergamo?
“Passato questo periodo mi sono rinfrancato fino a quando, quattro anni fa, il presidente dell’Entella, una persona illuminata, mi chiese di fare un lavoro per loro che tendesse ad insegnare il regolamento a tutti i giocatori della prima squadra e al settore giovanile, era ampiamente convinto che quando i calciatori conoscono il regolamento sanno come comportarsi ed, eventualmente, in che occasioni protestare. Lo, abbiamo fatto per tre anni dove abbiamo vinto una coppa disciplina (la squadra che prende meno ammonizioni e espulsioni ,ndr) e un altro anno siamo arrivati terzi in graduatoria. È stato un lavoro interessante, la seconda stagione l’allenatore era Breda, una persona di uno spessore umano fuori dal comune, tecnicamente molto bravo, con lui ogni settimana in base agli episodi visti in partita trovavo le correzioni del caso sia nell’atteggiamento dei giocatori che nell’applicazione del regolamento. Purtroppo quest’anno ho dovuto abbandonare ad inizio stagione per un problema di salute che fortunatamente ho risolto con un delicato intervento chirurgico”.

Perché non a Livorno?
“C’è un proverbio che dice Nessuno è profeta in patria, è difficile da spiegare, si fa più attenzione a persone che vengono da fuori piuttosto a quelle costruite in casa. Diciamo che Livorno è una città che in generale valorizza poco le sue eccellenze. A livello sportivo siamo una delle città più medagliate, dal pugilato all’atletica, canottaggio, scherma e nuoto. Mi vengono in mente tantissimi campioni del mondo livornesi nell’atletica Mori, il pugilato con Nenci, Sitri, Brondi, Golfarini, nel rugby Gaetaniello, più recentemente Montano nella scherma. Io non sono il solo, sembra che Livorno in tutti gli sport si dimentichi dei suoi campioni. A Livorno si potrebbe costruire qualcosa che sia di interesse internazionale, perché così tanti livornesi si sono imposti nello sport? Nell’arbitraggio ora c’è Banti che è un’eccellenza che per anni e anni ha portato in alto il nome di Livorno, non è facile avere continuamente un arbitro internazionale livornese, spero non finisca nel dimenticatoio anche lui, non è giusto, la città dovrebbe trovare il modo di valorizzare le attività che ha fatto”.

Come potrebbe essere valorizzata la Livorno sportiva?
“Sono sempre stato dell’avviso che Livorno dovrebbe costruire la prima università dello sport come negli Stati Uniti, abbiamo una zona con attrezzature sportive da fare invidia e maestri eccellenti in tutti gli sport, sarebbe un richiamo non solo turistico ma di applicazione allo sport. Sia ben chiaro però che non deve essere la costruzione di un ricordo, ma un campus dove tutti gli sport vengono rappresentati, prendiamo il nuoto, il più grande preparatore è Stefano Morini, chi meglio di lui può insegnare quello sport? E’ un sogno utopistico che un giorno si avvererà, sono le nostre tradizioni, certo, sta passando il tempo e non si realizza niente”.

Un progetto che negli ultimi giorni ha preso quota sembrerebbe quello di Livornello, il centro sportivo del Livorno Calcio. Cosa ne pensa?
“Speriamo, ci deve essere però un progetto vero, abbiamo capito troppo tardi che i settori giovanili sono del calcio, se non gli hai e continui a prendere giovani solo dall’estero non hai quell’incremento di talenti nazionali che ti risolvono i problemi anche nelle grandi squadre. Sono dell’idea che una grande squadra deve avere sempre un nucleo di calciatori locali, sono loro che fanno lo spogliatoio, hanno un filo diretto con l’allenatore e riescono a portare un equilibrio fra le varie nazionalità rivali”.

Il problema dei settori giovanili è solo una piccola parte della nostra arretratezza calcistica…
“Certo, è proprio il sistema calcio che non funziona, non è un caso che le quattro inglesi siano in finale nelle rispettive coppe europee. Laggiù sono riusciti a creare un sistema virtuoso all’avanguardia con gli introiti dei diritti televisivi che ritornano in parti proporzionali, hanno investito nelle strutture e ultimamente fanno business all’estero, soprattutto in Asia. In Inghilterra vai allo stadio e vivi la comodità di andare a vedere la partita, hai la possibilità di fare due chiacchiere, i negozi sono aperti e addirittura puoi pranzarci. E’ chiaro che con un sistema forte alla base poi arriveranno anche gli introiti per investire in giocatori di alto livello”.

In Italia la situazione non è proprio così…
“Noi siamo più di dieci anni indietro, pochissime squadre hanno lo stadio di proprietà, se giochi all’Olimpico le partite le guardi col cannocchiale, San Siro lo devono rifare, è un sogno di un’altra epoca, deve essere rimodernato. In Inghilterra si sono “permessi” di fare e disfare Wembley, l’Arsenal ha speso una cifra folle per lo stadio nuovo, sono diventati più funzionali. Lo stadio non deve essere intoccabile, deve essere comodo, moderno e funzionale, sono cambiati i tempi”.

C’è qualche stadio che le piace?
“Marassi a Genova è carino, almeno la partita la vedi, la Juventus in parte ha ricalcato il modello inglese, ma vedi, noi la nostra grande occasione l’abbiamo persa negli anni Novanta per i Mondiali, era il momento giusto per ricostruire le infrastrutture ed invece è stata una bolla di sapone. Considera che ci vogliono circa dieci anni tra progetto e costruzione, potevamo entrare negli anni 2000 con stadi nuovi ed invece siamo nel 2020 e ci troviamo di fronte a lavori fatiscenti vedi il San Nicola di Bari, il San Paolo a Napoli e lo stesso San Siro”.

Restando in tema modernità, l’Italia ha comunque il vanto di aver introdotto il Var…
“Sì e sinceramente lo condivido. Il calcio moderno richiede la perfezione, cosa che non ci sarà mai, la prestazione arbitrale non è più garantista sul risultato, c’è stato bisogno dell’introduzione di questo mezzo tecnico per dare credibilità alla prestazione arbitrale. Mentre il calcio accetta l’errore clamoroso del giocatore, mi viene in mente l’errore in finale di Coppa dei Campioni del portiere, l’arbitro invece non può sbagliare. Perché? Gli interessi sono troppo grossi, un errore di un giocatore viene coperto perché la continua ad averne bisogno la società continua ad averne bisogno mentre l’errore dell’arbitro che ha deciso negativamente il risultato non viene accettato proprio perché è un corpo estraneo alla società. Il progresso ha portato a questo, non è stilisticamente bello, le partite sono interrotte vai al Var, guardi, ci pensi, noi eravamo abituati ad un arbitraggio diverso, più frenetico. È chiaro però che sono diminuiti l’errori, l’evidenza è questa”.

Concludiamo questa intervista ribaltando i ruoli, Paolo Bergamo intervista Paolo Bergamo, che domanda ti faresti?
Quali sensazioni ho provato facendo l’arbitro? “Mi sono sempre sentito un giocatore mancato, mi sentivo appagato a stare in mezzo a loro, non ho mai sentito il distacco tra arbitro e calciatore, mi sentivo uno di loro. Il mio sogno era quello di diventare un grande giocatore, non mi sono mai sentito un arbitro importante, volevo stare con loro, è sempre stato un sogno da giovane. Volevo portare un senso di giustizia sportiva con i calciatori che arbitravo perché mi sentivo come loro, era la mia più grande soddisfazione. Fortunatamente, fra derby e partite di cartello ne ho fatte tantissime perché ero di Livorno e potevo arbitrare quelle che lottavano per lo scudetto. Non riuscivo mai a godere di una partita fatta bene, hai già il pensiero per quella dopo, se ne sbagli una poi rovini tutte quelle fatte precedentemente, la tensione era sempre al massimo”.

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