Il cielo sopra il letto, quando i (nostri) tempi non ammettono legami
Quale messaggio si ravvisa nelle lunghe linee di dialogo tra Saverio e Elisabetta? Siamo messi di fronte ad un testo affascinante che gioca i suoi temi portanti con astuzia nei confronti di colui che ne gode della messa in scena
di Claudio Fedele
Il cielo sopra il letto-Skylight è un dramma che soffre di un problema non da poco, che purtroppo ne limita la godibilità penalizzandolo in quello in cui vorrebbe riuscire maggiormente, ovvero l’introspezione psicologica dei tre protagonisti, questa grande pecca si trova, e con coerenza lo spettacolo se ne fa carico in toto, nel fattore riconducibile all’eccessività. Skylight vive d’eccessi, è un eccesso continuo, un fiume in piena di parole, frasi, lotte, scontri, amori, sentimenti e tormenti, tanto da risultare impossibile da fermare e assimilare con tranquillità e gusto. Materia che mescola e rinnova concetti decadenti figli di una società ormai in collisione con il suo futuro prossimo e con i resti del proprio presente, l’opera assimila e si gonfia di topoi sociali, politici, religiosi e civili imbastendo il tutto su un contrasto che si basa sul più classico degli intrecci: l’incomunicabilità tra più individui. Un ritratto deturpato e che scivola lentamente da un discorso ad un altro sorretto da una prosa ridondante colma di elementi su cui non si riesce mai troppo bene a focalizzare l’attenzione. E’ un’immensa bottega dell’antiquario, una bolgia infernale, dove ogni oggetto/discussione vale tanto quanto la precedente, che può venire prima o dopo quella che la segue o la precede, facendo appello al semplicistico concetto secondo il quale laddove vi è un contrasto per forza di cose la materia che lo alimenta è degna di interesse anche per coloro che l’ascoltano e non ne sono direttamente coinvolti. Perciò sorge spontaneo chiedersi quale sia la matrice di tutto questo, la mater di tutti i problemi e se questa sia un mezzo per un fine lieto o per un’ennesima separazione supportata dalla consapevolezza che l’essere umano non possa che abbandonarsi alla solitudine.
Cosa vuole dire al suo pubblico Skylight? Quale messaggio si ravvisa nelle lunghe linee di dialogo tra Saverio e Elisabetta? Siamo messi di fronte ad un testo affascinante, sulla carta, che gioca i suoi temi portanti con astuzia nei confronti di colui che ne gode della messa in scena, dove pare trovare maggior giovamento proprio nel farsi manifesto di un concetto, un’idea (abusata, certo, ma ancora attuale), senza però andare a scavare con brio e originalità nell’introspezione psicologica dei personaggi o nella critica sociale. E’ un prodotto che non vuole creare spunti di riflessione su ciò che siamo (diventati), quanto piuttosto confermare quelle incertezze e dubbi che alimentano il precario fuoco dell’esistenza moderna. Sono, non a caso, proposti, uno dopo l’altro, i grandi “mali” del nostro tempo, eppure oggi non possiamo più, in tutta onestà, criticare e muovere crociate di parole in nome ed a favore di uno stile di vita figlio della generazione precedente. La perdita dei valori dei nostri antenati è figlia di quella scissione culturale che non ha saputo attualizzarli, far vedere che quell’etica e quella morale poteva essere applicata a nuovi schemi e modi di vivere. Avvicinare un padre, ormai avanti con l’età, ad un figlio irrequieto che non ha la minima idea di cosa voglia dire “vivere” nel mondo reale, o essere contaminato da una visione adolescenziale pronta a sfociare in un maturo infantilismo, avrebbe potuto significare molto di più che assistere ad uno scontro tra il “vecchio” ed il “nuovo”. Skylight, in questo senso, non vuole costruire un “ponte” generazionale, non crea connessioni né dinamismo tra entità diverse, ma vive di staticità, di punti fermi e chiede al suo pubblico di fare una scelta precisa in quali elementi rispecchiarsi maggiormente; a ragione di ciò, vedere un supporto fondamentale dei e per nostri tempi, come può essere il mondo virtuale, servito su un piatto d’argento come un elemento di critica e alienazione individuale rischia di risultare anacronistico: tanto meglio sarebbe stato capire come si possa utilizzare al meglio il web, educare i giovani e gli anziani a quei mutamenti interminabili ed evolutivi che fanno progredire la società e la fanno cambiare, creare legami, per entrare a far parte di quel che Baricco chiama “il game”, perché ormai il mondo è esso stesso “il game” e parte del “game” in quanto nostra realtà; prendere le distanze da essa vuol dire alienarsi a nostra volta, essere snob, sentirsi (ma non per forza essere) migliori e sordi al futuro, un po’ come fanno Saverio e Elisabetta i quali non solo non riescono a trovarsi tra loro, da qui la decadenza nichilista, ma nemmeno all’esterno del loro nido d’amore, quella crisalide di cristallo costantemente pronta a disintegrarsi sulle loro idiosincrasie esistenziali e caratteriali.
Se nella prima parte del dramma abbiamo un motore narrativo che vuole avvicinare i protagonisti, con tanto di amplesso conclusivo, con il secondo tempo il fuoco verbale alimentato dalle due entità protagoniste li allontana sempre più fino a farli separare. Skylight offre il meglio proprio nell’ultima parte, quando, finalmente, placa i toni, rallenta il ritmo, fa prendere fiato ai suoi attori e gode di quei silenzi colmi di significato che assumo un’importanza granitica e godono di un’intimità talmente profonda che è nello sguardo di Barbareschi e Lucrezia Lante della Rovere che abbiamo un attestato sincero di quello che vuole dire amare e non riuscire ad amarsi, una differenza talmente sottile e mutevole di significato quasi impossibile da percepire, ma capace, come una forma verbale in una frase, di cambiare completamente il senso di un intero discorso.
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