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Il calzolaio di Ulisse: perfetta reinterpretazione di un racconto omerico. La recensione

Venerdì 31 Gennaio 2020 — 18:57

Un viaggio periglioso che predilige il racconto come mezzo e fine, ponendo al centro l’uomo in tutta la sua mutevolezza

di Claudio Fedele

Supportato da un accompagnamento canoro di tutto rispetto, Il Calzolaio di Ulisse riesce a dar nuova forma all’epos omerico mantenendo inalterato il valore assoluto della sostanza.
Prediligendo l’intreccio al racconto lineare, Marco Paolini, nei panni di Ulisse, racconta ancora una volta l’odissea, la guerra di Troia, gli antefatti del conflitto tra troiani e greci, parla dei tanti e tristi ritorni a casa, le concave navi, il sangue, i sacrifici e le ecatombi, di uomini, donne e divinità.

Fa tutto questo e ben altro e sulla carta lo fa talmente bene che il suo dramma teatrale arriva, in più di un’occasione, a farsi manifesto dello stesso multiforme ingegno che contraddistingue il suo protagonista adottando una metamorfosi narrativa che fa scivolare il racconto in una indomabile forma poliedrica di fruizione: recitazione, critica sociale, cabaret, musica e canto.

Il canto dell’aedo, come un tempo lo fu Femio a Itaca, si sposa con l’accompagnamento di canzoni rock in chitarra acustica e violino; si reinterpretano e re-inventano gli Dei e i luoghi sacri a Zeus, si costruiscono racconti sulla teogonia di Esiodo, si sposta il baricentro dell’Olimpo, la casa delle divinità, dalla Grecia all’Italia: tutto fatto in maniera assolutamente sobria e originale, intelligentemente ironica, tutto, però, devoto e rispettoso nei riguardi delle fonti da cui si attinge la materia.

In questo virtuosismo tragico l’unica nota leggermente stonata è la recitazione, non perché questa non funzioni, ma forse resta un po’ troppo scolastica e rigida, per alcuni attori, un po’ poco aggressiva in altre circostanze, ma il cast gode di un’ispirazione trascendentale quando viene chiesto loro di cantare e tramandare i contenuti attraverso musica e canto.

Grande attenzione è poi rivolta alle scenografie, alla perfetta impostazione dei personaggi sulla scena a seconda degli episodi descritti: Penelope, Circe, Elena, interpretate da Saba Anglana, sono creature immortali che anche in questa occasione non perdono fascino, le cui doti femminili le innalzano a personaggi ancora attuali e moderni grazie non tanto ai loro poteri, ma alle loro debolezze.

Vacis, regista dello spettacolo, Paolini e Niccolini fanno un egregio lavoro sulla sceneggiatura, portano alla luce un Ulisse talmente sfaccettato da sembrare uscito fuori da un romanzo contemporaneo; siamo anni luce lontani dalla polarizzazione etica che più volte ha “condannato” il figlio di Laerte tra chi lo ha elogiato e chi lo ha criticato nei secoli scorsi: Ulisse è un rebus irrisolvibile e gode di tutta la nostra attenzione proprio per il suo essere un enigma senza fine, che ad ogni rivelazione su di sé non semplifica la sua natura umana, ma la complica sempre di più. Paolini coglie le facce dell’uomo e il valore dell’(anti)eroe epico sfornando una perla da cui traspira in ogni suo gesto un lirismo decadente e malinconico, seppur fragile e umano.

Tecnicamente ricorda tanto un’antica tragedia greca, per il modus operandi con cui è stata portata alla luce, e chissà che effetto farebbe vederla rappresentata in un teatro greco come quello di Epidauro, ma la sua impostazione dai connotati postmoderni fanno godere quest’opera di un inedito elemento di innovazione su cui è bene mettere l’accento, perché Nel Tempo degli Dei è uno degli spettacoli più belli che possiate vedere o abbiate visto in questa stagione teatrale, merita ogni plauso ed encomio. Si traveste da opera mainstream ma cela una natura raffinata, è un tutt’uno con la materia narrata: un viaggio periglioso che predilige il racconto come mezzo e fine, ponendo al centro l’uomo in tutta la sua mutevolezza.

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