Pucci: “La mia Tamerice metafora dell’arte livornese e omaggio al mio babbo”
In primo piano l'artista Fulvio Pucci con la sua Tamerice che quest'anno rappresenta il Premio Rotonda. Scorrendo la gallery alcune sue opere
Parla l'artista de "La Tamerice", opera scelta dal Premio Rotonda come immagine simbolo di questa edizione 2024. "È per me una metafora dell'arte labronica che, arroccata e aspra resiste da secoli alle intemperie, al libeccio agli urti. Un inno Romantico, inteso nel senso più letterario del termine". Tra i suoi esempi e miti Duchamp, Modigliani e Picasso e tra i contemporanei Ventrone, Falcinelli e Munari. "Tatuaggi? Ne ho molti sulle braccia e uno solo sul collo: un amo. Per ricordarsi di non essere mai prede"
Ha un amo tatuato sul collo come a voler cercare di catturare la vita che spesso passa via accanto troppo veloce e sfila senza accorgersene. Ma è anche un monito per ricordarsi che, tante volte, si finisce prede noi stessi di un sistema da cui è bene non farsi catturare. Fulvio Pucci, 50 anni a settembre, porta dentro la sua arte il suo mondo fatto di pensieri affollati che si trasformano in immagini, in metafore visive. Porta, chi osserva le sue opere, in una girandola di colori e riflessioni. Piccoli saggi di filosofia mangiata in un batter di ciglia con un occhio rivolto sempre al senso estetico, al bello, al gusto e al mai sguaiato, al pittorico inteso nel senso più estetico del termine. Riflessioni in acrilico, o smalto, su tavola (“ho usato anche l’olio e la tela, ma trovo più congeniali al mio modo di esprimermi questi due strumenti”) maturate spesso e sovente durante la notte e rielaborate durante il giorno. “Il 70% delle mie opere nasce nella mia testa durante pensieri notturni“, spiega Fulvio Pucci, “poi il restante 30% viene elaborato ed eseguito il giorno, se posso e sono libero dal lavoro, al mattino”.
Pucci, dipendente di un’azienda del settore energetico, dipinge quando un pensiero bussa forte e sente l’esigenza di rappresentarlo. Un po’ come la sua “Tamerice”, in concorso lo scorso anno al Premio Rotonda e scelta come immagine per veicolare il premio per questa edizione 2024. “Una bellissima emozione vedere la mia Tamerice sulle brochure, sulle cartelle stampa e sui manifesti che promuovono il Premio. Ed è bello che questa iniziativa, come ha sottolineato Libera Capezzone, venga poi riproposta da qui in avanti con un’opera che ogni anno sarà in concorso. Un altro riconoscimento importante e prestigioso, di cui sono onorato e vado fiero per quanto mi riguarda, oltre ai premi in palio”.
Ma cos’è per lui questa Tamerice? “È per me una metafora dell’arte labronica – spiega l’artista, padre di Iris, 10 anni, e compagno da 16 anni di Elena -che, arroccata e aspra, resiste da secoli alle intemperie, al libeccio e agli urti. Se si pensa che è stata dipinta da Fattori nel 1880 ne “La Libecciata” è un vero e proprio monumento labronico. Un’icona artistica livornese. Tutti hanno provato a immortalarla prima o poi. Un inno Romantico, inteso nel senso più letterario del termine. Eroico. E poi mi ricorda il mio babbo che oggi ha la bellezza di 87 anni. Ho iniziato a dipingere grazie alla sua passione per l’arte e alla sua pittura. In casa c’era sempre un cavalletto e dei colori ad olio lì pronti per essere usati. E spesso mi portava davanti alla tamerice, con la cassetta di pennelli e colori, e la dipingeva con me accanto. Questa che ho rappresentato è proprio ispirata ad un suo dipinto di qualche decennio fa. È infatti una tamerice più giovane di come si può vedere oggi passando dal viale di Antignano. Ma il suo fascino e il suo significato, per me, sono eterni”.
Cosa dipinge Fulvio Pucci?
“Quello che penso. Quello che suscita una riflessione. Spesso metto in immagini una situazione, uno stato d’animo. I bambini che giocano a pallone è la spensieratezza inconsapevole di un momento che non tornerà più. Il quadro con i pinguini ad esempio sta a significare lo spaesamento dell’essere in una società che sa offrire solo un rumore bianco di fondo. E così via…”
Qualche consiglio a chi inizia…
“Provare, provare, provare e riprovare. Non aver paura di lanciarsi, di sperimentare. Le cose più belle spesso nascono dagli errori. Dai tentativi andati male. E poi, chiaramente, mai trascurare percorsi accademici e lo studio. Qui a Livorno ci sono varie scuole artistiche, di pittura e disegno. Io ad esempio all’età di 23 anni mi avvicinai alla Trossi Uberti e con loro feci un percorso di 3 anni che mi ha segnato molto e ha mi ha dato tanto in prospettiva”.
Quando guarda un suo quadro qual è la sensazione che prova?
“Di incompleto. Di insoddisfazione. Penso sempre che potevo e dovevo far meglio. Che quella pennellata magari la potevo dare in un’altra maniera. Ma è proprio questo che mi spinge a riapprocciarmi ad un altro lavoro. Se sentissi il senso di appagamento forse non sarei spinto a riprendere il pennello in mano per la successiva opera”.
Solo pittura?
“Ho sperimentato tante tecniche e diversi stili. Ogni tanto mi sono spinto alla costruzione di alcuni gioielli e alla scultura. Mi piace creare. Anche se da qualche anno sono stabile su questa espressività: acrilico o smalto su tavola. Non so se è un punto di arrivo. Al momento è così”.
Esempi e grandi maestri?
“Sempre difficile annoverare esempi e modelli. Sicuramente Marcel Duchamp, passando per Caravaggio senza ombra di dubbio per Modigliani. Del nostro concittadino ho sempre ammirato il coraggio. Il coraggio artistico e umano con il quale si è approcciato al suo tempo”.
E tra i contemporanei?
“Luciano Ventrone, Riccardo Falcinelli e Bruno Munari tra tutti”.
Con l’arte si campa?
“Nel mio caso no. Io ho un lavoro e l’arte che faccio mi consente di percorrere una strada parallela che mi appaga e dove posso esprimermi liberamente”.
Giusto così? O dovrebbe essere più remunerativo fare l’artista?
“Qualcuno riesce a viverci. E anche bene. Ed è giusto così. C’è la doppia faccia della medaglia però: non aver bisogno dell’arte per vivere ti consente, spesso e volentieri, di essere più libero in ogni tua forma espressiva, non avere l’assillo talvolta di essere legato per forza ad un format, ad una linea guida, ad uno standard creativo, al piacere per forza a chi deve comprare. Anche se, l’arte, serve per comunicare ed è giusto che incontri sempre il pubblico”.
L’arte è cara?
“Tutto è relativo. A tal proposito mi ricordo sempre un aneddoto che si racconta al riguardo della vita di Renoir. Si narra che un generale si recò da lui per acquistare un disegno del grande artista e lui gli sparò una cifra spropositata. Il militare inorridì e si oppose dicendo: Ma come? Ci ha messo solo cinque minuti per dipingerlo e mi chiede questa cifra? Si racconta che Renoir gli rispose: vero, per fare questo disegno ci ho messo cinque minuti, ma mi sono serviti 60 anni per arrivarci”.
Tatuaggi?
“Tanti. Ormai ho perso il conto. Ma solo sulle braccia e spesso ricordano il mare con cui ho un rapporto simbiotico. Spesso ho rinunciato ad occasioni che mi avrebbero portato lontano dal mare per rimanere vicino al salmastro. Oltre alle braccia ho un amo sul collo. Perché proprio un amo? Parola con cui si può giocare con il suo significato e che ricorda di non essere delle prede. O la preda alla fine, sono io?”.
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