In ricordo di Lia Orlandi
Ho avuto il privilegio di lavorare con Lia Orlandi per diversi anni riproponendo sulla scena tutte le maggiori commedie di suo padre Beppe Orlandi.
Così sono tornati a rivivere sul palcoscenico del teatro La Gran Guardia, del Goldoni e di altri teatri cittadini, i personaggi de “Li sfollati”, de “La Ribotta a Montinero”, de “La gita turistica”, de “La ‘iesta”, de “La Pia de’ Tolomei”.
Lia era una persona gentile, fine nei modi ed elegante negli atteggiamenti, sempre disponibile e sempre sorridente. E per me, regista delle commedie di Beppe Orlandi, il “guaio” era che Lia, portava queste sue doti e qualità, quando era presente alle prove nella realizzazione di qualche classico di Beppe.
In effetti, Lia era “tosta”, veramente “tosta” (sempre col sorriso sulle labbra), nel far valere le sue idee, e naturalmente non mancavano gli “scozzi” con il regista.
Il fatto è che Lia, non voleva che si tradisse in alcun modo il teatro di suo padre; si sentiva la depositaria della sua opera, colei che doveva conservare i caratteri e la dignità del migliore teatro vernacolare classico, non deturpato e contaminato da turpiloquio e scene osé.
Lia esigeva che si rispettasse il testo, ma anche che i gesti, gli atteggiamenti degli interpreti, non fossero mai gratuiti.
Senza troppi giri di frase, posso dire che era veramente una faticaccia lavorare con Lia.
In effetti, la sua non era una collaborazione alla messa in scena, ma ogni volta, una vera e propria lezione su come si porta in scena il vero teatro vernacolare classico, cioè il teatro di Beppe Orlandi.
Tante volte abbiamo discusso e preso feroci arrabbiature, quando Lia, novella Penelope, “disfaceva di notte”, la tela che io tessevo di giorno, sui gesti, le movenze, gli sguardi, l’intercalare delle battute, il tono dei dialoghi, la comicità delle parodie.
Lia cambiava quasi tutto perché il vernacolo di Beppe Orlandi era in special modo per lei, quasi il rinnovarsi duraturo di un rito, un rito che si ripeteva periodicamente da quando giovanetta aveva assistito agli spettacoli di suo padre.
Ed anche per queste ragioni, lei si affidava sempre agli stessi interpreti: suo figlio Stefano Favilla, Massimiliano Bardocci, Fulvio Pacitto, Alberto Carpigiani, Piero Paoli, Sandro Andreini; eccellenti interpreti che ad oggi purtroppo non hanno eredi.
Poi comunque le nostre dispute si appianavano, perché lei accettava di buon grado le mie invenzioni registiche ed io riconoscevo, che la sua” invadenza” era ben giustificata. E poi ricordo bene, come cambiava espressione e faceva la faccia schifata, quando si tentava di inserire nel testo, qualche espressione poco elegante. Diceva, perdendo un po’ della sua finezza: “Questo non è il teatro di Beppe Orlandi”.
E ne soffriva molto, quando veniva accostato il teatro di suo padre a certe commedie becere, rappresentate nei teatri cittadini, pieni di organi sessuali maschili e femminili e dove gli attori si vestono da donna solo per strappare qualche risata in più.
Per tenere viva la memoria di Beppe Orlandi, Lia, fino all’ultimo, ha catalogato la sterminata produzione del padre, sperando sempre che qualcuno la facesse rivivere sulla scena.
Ciao Lia, testimone gentile, di un sano teatro vernacolare livornese, che ormai non esiste più.
Beppe Ranucci
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