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Da Pistoia per vedere Dedo: “A Livorno una mostra su Modigliani che è anche un inno alla vita

Mercoledì 22 Gennaio 2020 — 16:48

Riceviamo e pubblichiamo una interessantissima recensione di un nostro lettore che ha scritto queste righe dopo aver visitato la mostra di Modogliani. Ringraziamo Alessandro Orlando da Pistoia per le belle parole dedicate al nostro concittadino. Ecco il testo della lettera.

«Sono Modigliani, italiano ebreo, cinque franchi per un ritratto».

Eccolo di nuovo. Eccelso e maledetto! Con i suoi ritratti che raccontano amori delicati e a volte furiosi, sempre impossibili. Quelle tele e quei disegni ci raccontano del suo mondo fatto di immortali amicizie e di monotonie pezzenti, disperate, geniali. Droga, sesso ed alcool ma soprattutto passione. Passione per la vita, per la pittura, per le donne. Eccolo di nuovo Amedeo Clemente Modigliani, Dedo, Modì, artista dall’animo inquieto, filosofo, letterato, a volte permaloso e irascibile sempre cortese e geniale. Eccolo di nuovo il “Cygne du Livourne”, come lo chiamavano gli amici di Parigi. E proprio la città labronica lo accoglie come un figlio, il figlio prediletto rifiutato e poi amato con tutto l’amore che solo a un figlio si può dare.

Livorno che trentacinque anni fa si fece beffa del mondo intero in una maniera che ha avuto dell’incredibile. I livornesi si presero gioco dell’arroganza e della superbia dei vari critici d’arte, improvvisati o navigati che fossero. In pochi attimi ed in anteprima televisiva nazionale, venne distrutta credibilità e stima di professionisti considerati tali fino a quel momento. I vari Durbè, Frontera, Giannini, Brandi, perfino Argan che era ritenuto uno dei maggiori critici d’arte del Novecento, troppo presi dal voler per forza trovare un capolavoro di Modì nelle acque dei fossi o, in seguito, di dichiararlo tale, non si resero minimamente conto che stavano cadendo in un tranello da mettere in prima pagina sul “Vernacoliere”, giornale livornese satirico per eccellenza. Si disse addirittura di aver visto critici ed amanti dell’arte profondamente commossi di fronte alle teste ritrovate. Tre sculture raffiguranti delle teste furono ripescate il 24 luglio 1984 nel Fosso Reale tra il Mercato delle vettovaglie e la Chiesa degli Olandesi, e troppo velocemente attribuite a Modigliani. Dal momento del ritrovamento per quasi due mesi una miriade di eventi si susseguirono freneticamente. La notizia riempì le pagine dei giornali e i telegiornali. Tutti i media del mondo seguirono l’avvenimento. Tutti gli addetti ai lavori si trasformarono in esperti e navigati critici d’Arte esprimendo giudizi ed opinioni. Tutti dissero la loro. Da subito l’arroganza e la superbia di grossi nomi della critica d’arte italiana generarono giudizi affrettati e false convinzioni che, infine, furono smentite dopo le rivelazioni di coloro che avevano ideato e messo in opera la clamorosa beffa. Gli studenti universitari Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci, Michele Ghelarducci e Michele Genovesi nonché il giovane pittore e scultore Angelo Froglia, chi per un motivo di rivalsa, chi per semplice burla, affermarono, provandolo in maniera inequivocabile, di aver inscenato tutto e portata a compimento un’operazione che verrà ricordata negli annali della Storia dell’Arte.

Livorno attendeva da un secolo questa mostra.  In questa città, Amedeo, si era formato artisticamente studiando i macchiaioli alla scuola di Micheli, ma quel mondo chiuso, la loro mancanza di dubbi con la certezza di essere il gotha dell’Arte non faceva per lui che smaniava in una ricerca continua. Si dibatteva alla ricerca di qualcosa di diverso. Voleva evadere da quell’universo per lui troppo stretto. Ci riuscì, abbandonando tutto e tutti, verso altri lidi, altre città, Venezia, Firenze, Lucca e Parigi. Finalmente Parigi che nei primi anni del ‘900 era la capitale mondiale dell’arte, della letteratura, delle passioni e che faceva da cassa di risonanza per il mondo intero. Finalmente Parigi verso il centro universale della creatività artistica. Finalmente Parigi, il che vuol dire non guardare più a Canova o Raffaello ma ad un mondo diverso come aveva fatto a suo tempo Gauguin. Infine un’ultima rimpatriata a Livorno nel 1915, la sua città natale dove da quell’anno non fece più ritorno. Ora questo porto labronico tra i più importanti d’Italia sede dell’Accademia Navale della Marina Militare, ci fa dono della mostra “Modigliani e l’avventura di Montparnasse, capolavori delle collezioni Netter ed Alexandre” visitabile fino al 16 febbraio 2020 presso il Museo della Città situato in Piazza del Luogo Pio, nel complesso inaugurato nella primavera del 2018 e ricavato dal collegamento dell’ex chiesa dell’Assunzione e i Bottini dell’Olio.

Le opere esposte provengono dalle collezioni di due figure importanti nella vita dell’artista che lo hanno seguito e sostenuto durante la sua breve esistenza: Paul Alexandre e Jonas Netter.

L’evento è organizzato dal Comune della città labronica insieme all’Istituto Restellini di Parigi con la partecipazione della Fondazione Livorno, è curato da Marc Restellini con il coordinamento di Sergio Risaliti ed offre ai visitatori l’occasione di ammirare ben quattordici dipinti e dodici disegni di Modigliani raramente esposti al pubblico. Non solo però. La mostra inizia con alcuni dipinti di Suzanne Valadon e del figlio Maurice Utrillo dal marcato segno impressionista con meravigliose vedute di una Parigi oramai scomparsa. Prosegue poi con i pittori del quartiere vizioso e dinamico di Montparnasse. Così si possono ammirare opere di artisti del calibro di Guillaume Apollinaire, Chaïm Soutine, Paul Guillaume, Blaise Cendrars e Andrè Derain. Tra i disegni di Modigliani ci sono anche alcune Cariatidi, figure che escono da un mondo atavico e primitivo, tra le quali la Cariatide (Blue) del 1913, dai contorni sfumati e colorati che danno alla figura un aspetto lascivo e sensuale. E poi “Elvira a la Collerette” del 1918, la bellissima modella, amata e venerata anche dagli amici parigini di Modì.

Un’attenzione particolare merita la Bambina in azzurro (Fillette en Bleu del 1918), che è anche l’opera che identifica l’evento e che rappresenta una bambina di circa dieci anni dal vestitino azzurro pallido come la tonalità del muro retrostante. La tenerezza della postura, la testa reclinata, le mani congiunte in grembo. Una fragilità nascosta e il senso di disagio infantile, sebbene sapientemente mascherato, nel tenere la posa in un equilibrio forzato. Vertiginoso il pavimento che rispetto alle pareti è fuori prospettiva, l’angolo nascosto dalla figura e la grande ombra riflessa sul muro quasi a sottolineare una solitudine assordante, l’azzurro che sovrasta e i rossi delle labbra, delle guancette tonde, dell’orecchio seminascosto dai capelli, il bianco del colletto in pizzo sangallo e gli stivaletti neri, lucidi, quasi sospesi alla ricerca di una pur minima profondità. Unico vanesio vezzo infantile, da donna che cresce, è il fiocco del nastro rosso sopra la testa. Tutto crea un magistrale contrasto piacevole allo sguardo. I colori dell’anima.

E poi cosa dire di “Jeune fille rousse” del 1919, gioiello in mostra che ritrae Jeanne Hébuterne, donna innamorata, al tempo stesso forte e fragile. Quella piccola ciocca di capelli che sporge e scende sulla guancia vicino all’occhio sinistro sembra rendere vivo lo sguardo che trasuda amore e passione. La pennellata di Modì è piena d’amore, amore e regole, ma regole da abbattere, non regole da seguire. E soprattutto la sua pennellata precisa fa emergere l’anima del soggetto ritratto. Jeanne, una donna che lo invoca, lo vuole, lo vuole ad ogni costo, lo ama, lo ama al punto di non lasciarlo mai più. Quell’uomo di quattordici anni più vecchio le ha rubato l’anima e lei gli si dona incondizionatamente. «Dici che la felicità è un angelo dal viso severo. Va bene Modì, per te smetterò anche di ridere». Quando l’artista muore quella donna dalla pelle bianchissima e dai capelli castani, particolare contrasto che le era valso il soprannome di “Noix de Coco”, non sopporterà di vivere senza di lui. Quella donna dagli occhi azzurri come il mare, alla quale non importa essere l’ombra del suo amato e che perdona i tradimenti, le sbronze, le promesse non mantenute, la vita di stenti che condivide, non sopporta di vederlo morto in quel letto d’ospedale. Il sole non è più sole, la vita non ha più colore. La sua vita non ha più senso di esser vissuta, senza Modì. Ne muore la ragione stessa. Jeanne ha detto che non avrebbe mai lasciato il suo amore. Quando è arrivato il momento di mantenere la promessa si uccide gettandosi dalla finestra dell’appartamento dei genitori che si trovava al quinto piano, morendo sul colpo insieme al bambino da lei portato in grembo che da lì a pochi giorni avrebbe partorito.

Le quotazioni dei quadri di Modì iniziano a lievitare fin da quando il corteo funebre che lo accompagnerà per sette chilometri, dall’ospedale della Charité al cimitero di Pére Lachaise, inizia a muoversi. Molti accompagnano Modì. Molti e illustri: Picasso, Max Jacob, Blaise Cendrars, Andrè Derain, Andrè Salmon, e Simone Thiroux, una delle tante innamorate respinte e per di più madre di un figlio mai riconosciuto dal pittore. Perfino i poliziotti stavano sugli attenti al passaggio del feretro. Intanto nelle due stanze che sono la casa dell’artista e di Jeanne in Rue de la Grande-Chaumière rimangono scatole di sardine e bottiglie di vino vuote. Senza folla invece i funerali di Jeanne, fissati per le otto del mattino seguiti dal padre e dalla madre in taxi insieme al fratello verso un cimitero lontano, sinistro, incolore.

Ormai da tempo, in questo mondo scambiamo la semplicità con la superficialità, la bellezza con la volgarità, l’eleganza con l’indecenza e spesso, per quanto riguarda l’Arte, ci interessiamo unicamente per il valore economico che essa rappresenta senza riuscire a provare pura emozione. Il denaro e gli interessi prendono con facilità il posto del cuore e non l’incanto o la purezza del bello e del valore che esso rappresenta. Il nostro vivere sembra fatto sempre più di traguardi da raggiungere calpestando ogni ideale e anteponendo, a scapito della propria libertà, quello che appare opportuno a quello che realmente pensiamo. Proviamo a liberarci da questo mondo rarefatto ed entrare in punta dei piedi, ascoltando senza fretta ciò che le immagini hanno da dirci. Ci ritroveremo in un tempo lontano eppur vicino e allora sarà facile pensare Modì al lavoro, di fronte alla tavolozza e al cavalletto, strafatto di hascisc e di vita a cantare nei vicoli di Montmartre oppure mentre esclama convinto di fronte ai suoi amici la frase che adesso sembra risuonare come un mantra per tutta la mostra: “Il tuo unico dovere è salvare i tuoi sogni”.

Suonano profetiche le parole che il “Principe”, uno dei soprannomi con i quali Modigliani veniva chiamato a Parigi, disse un giorno rivolgendosi a Jeanne quando non riusciva a vendere neanche un piccolo disegno: «Vedrai, un giorno le mie opere saranno esposte nei musei»

Scrivere di Modigliani non è mai facile. Occuparsene con lo studio e in maniera seria, significa avere molte informazioni, spesso discordanti, ed inoltre sui pochi e frangibili aneddoti che si riescono a trovare, va fatta un’attenta distinzione. Nella grande bibliografia e nelle numerose testimonianze a disposizione ci sono notizie vere, verosimili, non complete e false. Un lavoro impegnativo distinguerle. Un lavoro difficile. Un lavoro che coinvolge e non finisce mai. Un maledetto lavoro.  Però affascinante, un lavoro che diventa continua ricerca, un lavoro che strega.

Nella storia dei grandi maestri della pittura di ogni tempo, unica è la storia di Modigliani, un personaggio immortale che diventa leggenda e che attraverso i suoi ritratti e i suoi nudi esprime e trasmette al tempo stesso, in una giostra di profonde antinomie un’estrema vitalità ma anche il senso della caducità della vita.

L’arte è una medicina per lo spirito che va presa a piccole dosi, altrimenti si rischia di rimanere schiacciati e di non apprezzarne il valore e l’intima essenza. Fermatevi di fronte ai quadri e ai disegni esposti, senza fretta e ripensate a quell’artista livornese che è riuscito ad incantare gli amanti della pittura con i suoi colli lunghi e con quei dipinti dove un occhio è aperto sul mondo ed un altro vuoto, introspettivo come a voler analizzare la propria interiorità.

Una mostra da non perdere. Una mostra dove dobbiamo disporci ad accogliere la bellezza, quella che risiede nel profondo del nostro animo e dove il tempo e la morte perdono il loro potere. Scostiamo la pesante tenda montata all’ingresso alla mostra ed entriamo dove il tempo non finisce e la morte è solo un passaggio che apre le porte ad un evidente riscatto. Il tempo non finisce perché quel suo modo particolare di dipingere e soprattutto l’avventura della sua esistenza umana, rimane un’icona dell’arte mondiale dove le emozioni non hanno inizio, non hanno fine, non hanno età, non muoiono mai. Saremo rapiti dall’estasi come ebbri d’assenzio e proveremo una meraviglia unica e infantile. Piangete su quegli sguardi lascivi, sui primi piani che sembrano rompere la tela, sui grigi senza speranza, sui teneri azzurri, sui rosa sfumati, sui rossi intensi o sui verdi pacati.

Piangete di una gioia rinnovata e senza futuro perché immortale.

Una gioia immortale per l’arte.

Un inno ai colori e le figure di Modì.

Un inno alla vita.

©AlessandroOrlando2020

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