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Caro babbo, ci manchi tanto. Chissà se da lassù guardi ancora il Tour de France…

Mercoledì 12 Settembre 2018 — 10:53

Dopo un anno che ci hai lasciato… Caro babbo, le parole si aggrovigliano così come i pensieri e faccio fatica a mettere ordine nelle cose che vorrei dirti. Sono così tante…..così  come le domande e gli interrogativi che ad oggi rimangono senza risposta. E qualcosa mi dice che rimarranno tali per chissà quanto tempo, forse per sempre. Non sai quante volte, noi, tuoi cari, ci siamo chiesti se le cose sarebbero potute andare diversamente se quel giorno di inizio settembre al pronto soccorso di Pisa avessero fatto un’ecografia per riscontrare che eri in ascite, invece di rimandarti a casa in attesa di rivederti dopo qualche giorno, parlando di una subocclusione intestinale e meteorismo. Non sono un medico, in famiglia non ne abbiamo e non possiamo giudicare. Ma porsi la domanda è legittimo. Al pari di chiedersi come mai lo specialista che ti aveva “in cura” ci aveva tranquillizzato soltanto un paio di settimane prima che tu ci lasciassi. Anche in quel caso il “protocollo non prevedeva” ecografia di controllo ma una tac che avresti dovuto fare soltanto dopo mesi. Dico “avresti” perché a quella tac non ci sei mai arrivato. I “protocolli”…i “famosi protocolli”. Tanto utili quando si deve estrarre il DNA, l’RNA, fare una PCR, un esperimento di laboratorio insomma… e che sicuramente saranno utili anche in campo medico. Probabilmente però, quando si ha a che fare con “mali” di questo tipo, così vigliacchi, silenti, insidiosi, devastanti, non sempre si dimostrano efficaci. A volte ho davanti la figura, senza volto e senza nome, di un medico dai connotati quasi miracolosi, dai tratti tipici di quei medici “pazzi”, che escono dagli schemi, che le provano tutte, che “si buttano”, che hanno la forza di “convincere e persuadere” quando è il caso, che si impongono e che prendono in mano la situazione. E soprattutto che “ascoltano” i disturbi che il paziente avverte e che lo visitano. Lo visitano davvero. Non stando dietro una scrivania, prescrivendo solo farmaci e analisi (previsti dal protocollo appunto), ma che visitano con le proprie mani, con i propri occhi, con il proprio cervello e il proprio cuore. E collegano. Collegano tutte le informazioni per ipotizzare anche una possibile altra via. Non voglio dire che questa via ci possa e debba essere sempre e comunque. Ma da lì a tranquillizzare un paziente una settimana prima che venga ricoverato in altra città, già in ascite, senza aver dato peso alla “sensazione di spranga tra stomaco e intestino” che il paziente (mio padre) avvertiva… beh… c’è una bella differenza.
Un abisso. E quell’abisso adesso divide tu da tutti noi. Un abisso incolmabile. Come un abisso ci sembrava il tempo che hai dovuto aspettare (circa due mesi) per poter fare una biopsia ossea con già dubbi sulla dolorosa diagnosi. Due mesi… per un fax che non arrivava… o forse si perdeva tra i fili dei vari reparti. Dovemmo interpellare il tribunale del malato. Un grazie va a coloro che hanno ascoltato il proprio e il tuo cuore “andando oltre i protocolli”: qualcuno lo hai incontrato sul tuo percorso per niente facile. Penso a quando mi hai detto, in uno degli ultimi giorni, in cui eri qui a Livorno, nell’ospedale più vicino a casa alla fine, “Valeria, per favore, non litigare!”. Ti riferivi a me, arrabbiata con una addetta alla tua cura che dopo più di due ore ancora non era venuta a cambiarti e alla quale ho sentito dire “c’è una signora che mi chiama convinta che cambiare il pannolone sia un’emergenza!”. A quella signora vorrei dire: “No! Non era un’emergenza rispetto ad altre cose, sicuramente tante e più urgenti, che avete da fare e per le quali, forse, un senso di stanchezza e frustrazione per la mancata remunerazione economica, può cogliere… no! Non era un’emergenza!” Infondo si trattava di cambiare il pannolone ad un malato terminale, pienamente cosciente fino al suo ultimo secondo di vita. Ultimi attimi in cui non è stato possibile accompagnare mio padre nell’aldilà (se è vero che c’è un aldilà), perché l’infermiere che faceva il tirocinio nel reparto era impegnato (e sicuramente lo era) a fare un esame al paziente ricoverato nel letto accanto a quello di mio padre. E, impegnato com’era, non si è accorto che mio padre se ne stava andando. E così, quando siamo rientrati nella stanza, ce ne siamo accorti noi babbino mio. Noi, e solo noi. Ricordo che prima che venisse chiusa la porta della stanza in cui eri ricoverato stavi su un fianco, con una mano che, tra le tante domande che rimangono, non  sappiamo e non sapremo mai, se era protesa leggermente verso il lato della porta, per chiamare qualcuno di noi, qualcuno dei tuoi cari, per poterti accompagnare e sentirti sussurrare qualche parola, che il tuo carattere ha sempre fatto fatica a far uscire. Quella porta è stata tenuta chiusa per più di mezz’ora dal “personale addetto”. E quando si è aperta tu te ne eri già andato.  Adesso chissà su quale parete di montagna ti starai arrampicando, magari fumandoti una sigaretta o guardando dall’alto il Tour de France che non è risultato così fortunato per il tuo ciclista preferito, Nibali. Stai pur certo però che la tua correttezza, la tua onestà, la tua bontà (quella vera, pura, profonda, non il falso perbenismo che alcune persone non falliscono mai nel dimostrare in certe occasioni), la tua integrità morale, professionale, etica, il tuo rispetto per gli altri e per la natura vivranno sempre in noi. Ogni giorno cerco di infondere in Margherita questi valori e spero di riuscirci, come tu sei riuscito a farlo con noi, insieme a mamma. A chiunque, pur non augurandolo mai a nessuno, possa mai trovarsi nella situazione di una malattia “malefica e beffarda” dico: “cercate chi gli scrupoli ve li toglie e vi fa sentire davvero protetti”. Non si pretende l’invincibilità di chi ci cura, ma la coerenza e il coraggio.  Tu babbo, da parte tua, ne hai avuto tanto, tantissimo. E sono sicura che da lassù hai potuto vedere anche Margherita, che a Natale del 2017 ha imparato a camminare. E’ tosta e si arrampica su tutto. Proprio come te. Ti vogliamo bene.
Tua moglie Rita, i tuoi figli Andrea e Valeria e tua nipote Margherita 

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