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Lettera di un babbo dalla sala parto

Martedì 29 Maggio 2018 — 21:18

Non me ne vogliano le “due” donne: da una parte l’ostetrica, dall’altra la mamma. Ognuna meriterebbe due righe a parte in qualità di protagoniste indiscusse. Vorrei parlare dell’altra metà della coppia. Dell’uomo che diventa babbo. In particolare, vi parlo della mia esperienza. Un’esperienza vissuta alcuni giorni fa. Sala parto di Livorno. Martedì 22 maggio. Innanzitutto non so voi, cari uomini, ma non me la immaginavo così. E’ (quasi) accogliente. Più sala che operatoria. Luci basse – se la mamma vuole si possono pure spegnere – serrande elettriche abbassate, stereo e una sfilza di cd (puoi anche portarti la chiavetta usb da casa con la tua musica preferita) rilassanti. Sparse in qua e là tante “postazioni” in cui la mamma può sedersi e partorire, tra cui una vasca. Neanche nella sala di casa… E io che, giuro, me la immaginavo molto più operatoria: bisturi, luce da dentista tipo interrogatorio, spazi angusti… Mi sono ricreduto. Anche voi? C’è persino la postazione dedicata a noi: una sedia che si allunga per distendere le gambe. Non è comodissima ma è pur sempre una sedia che si allunga, buona per provare a riposarti nell’attesa del momento. Per un attimo dimentichi davvero di trovarti in ospedale. Ma in realtà sei lì con tua moglie. In sala parto. Ho capito che il confine fra il pestare i piedi agli operatori e renderti utile è, manco a dirlo, sottilissimo. Ho anche capito, però, che un ruolo lo abbiamo. Quale? Il mio – e ne vado fiero considerando che all’inizio ero pure indeciso se assistere o meno – è stato quello di sventolare mia moglie con un pezzo di carta fra una spinta e l’altra. Giulia, l’ostetrica, mi aveva assegnato questo compito. Un compito che ho eseguito alla lettera. Avvicinandomi durante la spinta e allontanandomi durante il recupero. Ogni tanto un “ti metto un po’ di musica” aiutava più me che lei a stemperare la tensione. La pazienza è una virtù. Ho capito che lo è davvero una virtù. Minuti che diventano ore, ore che diventano giorno, giorno che diventa notte e ancora giorno. Vi confesso un’altra cosa: mi sarei aspettato di trovarmi a tu per tu con, diciamo così, il colore rosso. Lo temevo. Era quello l’ostacolo più grande. Invece no. Di contro sapevo che avrei sentito mia moglie dilaniarsi dal dolore ma, non so voi, non con tale grinta e forza. Una grinta disumana. E tu lì impotente non puoi far altro che sventolare e accarezzarle la fronte con la mano. Ho capito, infine, che il primo compito una volta diventato babbo diventa quello di un centralinista misto a buttafuori. “E’ nato, è nato” rispondi a tutti via whats app. E’ l’emozione più grande dopo ore di attesa vissuta da comprimario, da spalla. Mio figlio Tommaso alla fine è nato con il cesareo: quando è nato me lo hanno portato nella culla. Ho pianto? Sì, ovvio. Non mi dilungo in altre emozioni. Queste me le tengo per me. In questa circostanza però tu, neo babbo, hai un altro compito: recarti al nido per confermare i dati e ricevere le prime indicazioni. Sbrigate le pratiche devi quindi contenere parenti e amici che di lì a poco – i miei, di amici e parenti, sono stati tutti eccezionali nella loro discrezione – ti si presenteranno in camera. Nel frattempo la moglie è uscita dalla sala operatoria (quella sì che è operatoria…). Io qui non sono entrato. O meglio, non fanno entrare. Nell’attesa i corridoi delle sale parto non sono corridoi comuni: ci sono foto di bimbi sorridenti in qua e là. Incorniciato c’è anche un bell’articolo del collega Federico titolato: “Si entra coppia, si esce famiglia”. E’ esattamente così. E aggiungerei, dal nostro punto di vista: si entra uomo, si esce babbo. A questo punto spero, dopo la descrizione della sala parto, di aver convinto anche i futuri babbi più fifoni, come me, ad entrare e a vivere questa esperienza. In maniera discreta. Perché i protagonisti non siamo noi.

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