“Il nome della Rosa”, successo per il kolossal. Sul palco si sposano tradizione e sperimentazione
Operazione complessa e figlia di continue revisioni, ma che la si può considerare più che riuscita. La pièce gode di tutto quel fascino oscuro, intrigante ed arcano che ha contraddistinto, e fatto amare, il manoscritto originale
di Claudio Fedele
Il 14 e 15 novembre, al teatro Goldoni, ha debuttato “Il nome della rosa”, la pièce tratta dall’omonimo romanzo di Umberto Eco. Per la regia di Leo Muscato la versione teatrale del romanzo è stata curata da Stefano Massini che ha adattato il manoscritto in prosa in una nuova forma di testo che rispetti le regole che si confanno alla drammaturgia.
Operazione in principio complessa e senza ombra di dubbio figlia di continue revisioni, ma che la si può considerare più che riuscita. “Il nome della rosa” a teatro gode di tutto quel fascino oscuro, intrigante ed arcano che ha contraddistinto, e fatto amare, il manoscritto originale che rimane, ancor oggi, una dichiarazione di amore profondo verso i libri e la conoscenza.
Nell’arco di sette giorni un’abbazia dell’alta Italia viene conquassata da efferati omicidi, le vittime sono tutti monaci amanuensi. Sinistri presagi incombono e minacciano la cerchia spirituale a cui capo vi è l’abate Abbone. Questi, disperato, coglie l’occasione per coinvolgere il nuovo arrivato, Guglielmo da Baskerville, giunto, con il suo discepolo Adso da Melk, presso il complesso monastico per una delicata missione diplomatica, tra papato ed impero. Guglielmo, francescano, forte sostenitore delle idee dei dotti della sua terra ed assetato di sapere, accetta il caso, mettendosi subito all’opera per far luce sugli orrori che avvengono entro le mura della diocesi. Dopo oscure premonizioni, indovinelli indecifrabili, annunci dell’apocalisse imminente, dispute filologiche e teologiche, Guglielmo comprende che la causa di tanto male è riconducibile all’esistenza di un libro proibito celato al mondo entro le mura dell’Edificio, luogo in cui risiede una delle più famose biblioteche della cristianità, inaccessibile se non per chi possiede uno speciale permesso. Sarà suo compito entrarvi, andando contro le regole impostegli, per far luce sugli eventi di cui “è bene si taccia” e sia fatta chiarezza e giustizia sulle morti figlie non del maligno, ma del male che si annida nell’animo umano.
C’era molta attesa per questa trasposizione de “Il nome della rosa”, vuoi per la complessità del materiale di partenza, vuoi per essere un adattamento teatrale che prende spunto da un manoscritto e non da un testo drammatico; paure e premesse che potevano alimentare un certo scetticismo, eppure è difficile rimanere impassibili di fronte all’allestimento realizzato da questa produzione che sa regalare momenti di grande recitazione e sa coinvolgere il pubblico non mettendo in secondo piano tematiche e aspetti cari ad Umberto Eco.
La storia di Guglielmo e di Adso rispetta in principio la struttura delle cornici narrative, ma come per altre situazioni era logico aspettarsi delle dovute semplificazioni. L’intera vicenda ci viene narrata tramite la figura di Adso (nel quale è facile immedesimarsi), ormai anziano, tramite una lunga analessi. Prossimo alla morte, il monaco di Melk decide di mettere per iscritto le sue memorie e far conoscere al mondo un capitolo tra i più oscuri della cristianità (nella finzione letteraria) dove mai prima di allora il confine tra bene e male è stato così labile.
La messa in scena si rivela imponente fin dalle prime scene, a convincerci di ciò basterebbe la figura statuaria di Luigi Diberti (Adso anziano) che si presenta sul palco contornato da un fascio bianco di luce con dietro uno sfondo nero, a cui poi seguirà un telo rosso, a ricordarci esteticamente i dipinti di Caravaggio e con essi la teatralità delle sue opere. Laddove infatti “Il nome della rosa” parla di libri, quest’opera con altrettanta naturalezza parla di teatro e porta al limite estremo soluzioni e allestimenti che, pur non risultando mai eccessive, mettono in mostra un reparto tecnico notevole.
Grazie ad un’ottima gestione, nella prima parte, per quanto concerne l’intreccio narrativo il ritmo con cui si succedono gli eventi, dei quali Guglielmo con le sue deduzioni argute si fa punto di riferimento, le due ore e mezzo necessarie per arrivare alla conclusione della storia non affaticano e mantengono una certa godibilità anche nei passaggi più dialogati o nei monologhi a cui alla base stanno ragionamenti teologici.
Le suggestioni visive spaziano dalla rappresentazione dell’abbazia, ricostruita in modo certosino tramite scale, colonne, giochi di luce e immagini multimediali (straordinariamente utili per identificare, sullo sfondo, i luoghi che la contraddistinguono) fino ad arrivare alla gestione delle coreografie dei monaci che animano la scena. E’ una ricostruzione, quella fatta, attenta e curata fin nei minimi dettagli, dove ciò che avviene dietro le quinte o sullo sfondo, vale tanto quanto quello a cui siamo messi dinnanzi in primo piano. Ogni elemento appare vivo e si rivela essere un dedalo di sorprese e orrori che non aspetta altro di mostrarsi, in tutta la sua drammaticità e antico fascino, allo spettatore. L’allestimento non si fa minimamente scrupolo di mettere in mostra gli elementi più cruenti e strazianti che contraddistinguono la componente thriller.
A tal proposito è bene menzionare anche la scena legata all’amplesso del giovane novizio Adso con la ragazza del villaggio sottostante il monastero. Scena dove l’eros, la carnalità, la poesia ed il canto si fondo insieme tanto nelle parole con cui sono descritti nel romanzo, quanto nei fatti così come sono portati in scena. Grazie alla fotografia ed alla tensione creata, il momento in cui si consuma l’atto sessuale chiude in modo soddisfacente un primo atto contraddistinto da una potenza drammatica notevole, che coinvolge e lascia poco spazio alla fantasia o alla noia. Da tenere presente come, per evitare una sequenza fine a se stessa, siano state messe ben in evidenza le conseguenti pene d’amore ed i dubbi sulla fragilità umana che metteranno in crisi il giovane novizio.
La sublimità raggiunta, nei diversi ambiti della produzione, nella prima parte, purtroppo non è tuttavia eguagliata nel finale. Questi, in alcuni punti affrettato o modificato a tal punto da mettere in luce palesi incongruenze, rimane saldo e forte nell’estetica, tanto che si può tranquillamente dire che ci sono un paio di scene di considerevole impatto, ma claudicante nell’intreccio.
Un paradosso di non poco conto considerando che il messaggio di fondo, che emerge dal testo di Massini, è incentrato non tanto sul dare un’interpretazione personale sulla dicotomia religiosa, morale o metafisica, o denunciare un determinato periodo storico, ma sul ruolo e l’importanza che hanno la logica e la deduzione, la lettura scientifica del mondo, la curiosità e la conoscenza. Proprio perché questa pièce punta molto sulla componente deduttiva, pur non focalizzandosi mai del tutto sulle mere deduzioni che la legano al giallo a cui si presta una lettura superficiale, dispiace vedere che a mancare sia una coerenza legata ai fatti ed allo svolgimento (consequenziale) degli eventi.
Ci sono lacune che se analizzate portano ad interrogarsi sul perché di tali scelte, forse dovute a questioni di tempo o sotto-trame che, se prese in analisi, avrebbero diluito ancor di più una rappresentazione di già considerevole durata. Sono minuzie che, tanto nella storia, quanto nella sua fruizione, contrassegnano mancanze minime, ma tangibili.
Il secondo atto offre, però, un paio di momenti assolutamente memorabili: il primo è tutto merito della produzione, in special modo delle scenografie e dell’impostazione scenica, che vede protagonista Bernardo Gui, l’inquisitore; il secondo, nel finale, fa i conti con le parole scritte da Umberto Eco e coinvolge il venerabile Jorge da Burgos.
L’intervento sulla scena di Bernardo, così come il processo che fa al celleraio Remigio, a Salvatore ed alla ragazza di cui Adso s’innamora, da lui considerati i colpevoli dei sinistri eventi recenti, è visivamente impressionante.
Austero, orgoglioso, tirannico e titanico, Eugenio Allegri si cala nei panni di uno degli “antagonisti” dotati di un carisma formidabile nati dal genio di Eco. E’ il “male” della fede che rappresenta la santa inquisizione, l’uomo che declina a sua propria interpretazione e vantaggio, per mantenere una determinata forma di controllo sul mondo, il messaggio divino. Durante il processo per stregoneria e negromanzia contro i tre sopra citati si assiste ad un capovolgimento di ruoli dove l’elevarsi di Bernardo sulla scena, posto sulle impalcature sopra qualunque altro personaggio, corrisponde, speculativamente, ad uno dei momenti più bassi del cristianesimo. Bernardo, nell’immedesimarsi nell’alto e sacro giudizio divino si fa, in uno sfondo di luci vermiglie, giudice e veicolo della depravazione diabolica.
Questo gioco di ambivalenze, di doppie interpretazioni, a volte sceniche, altre volte narrative ed altre ancora teologiche o filologiche, si ha in numerosi frangenti, ma mai appare tanto palese, inquietante ed affascinante come nel momento in cui si arriva alla climax che vede condannare Remigio, Salvatore e la ragazza. Ogni cosa ne “Il nome della rosa” non si presta mai ad una interpretazione assoluta ed unica, ma fornisce una visione duplice o molteplice: l’inferno può essere il paradiso visto all’incontrario, un veleno può essere una cura, la donna santa e dannata, il bene può portare al male e la troppa fede può condurre ad atti di malvagità inaudita.
Ed infine, tematica cara e fondamentale nell’economia del testo e del dramma, l’importanza del riso, sui cui non mancano, neanche in questa produzione, le affascinanti e lunghe dispute, dibattiti e scontri tra chi lo considera naturale e chi lo associa alle bestie ed al mondo delle cose effimere.
“Il nome della rosa”, tratto dal romanzo di Umberto Eco, per la regia di Leo Muscato è certamente un dramma imponente, struggente e visivamente maestoso, un kolossal teatrale di tutto rispetto che riesce a intrattenere il pubblico dando vita ad una lunga serie di situazioni, personaggi e dialoghi che vivono sempre di quella luce riflessa proveniente dal manoscritto originale, ma di cui sanno darne un’interpretazione originale. E’ un elogio sia del testo da cui è tratto, sia un atto di profonda sperimentazione teatrale che coinvolge tagli cinematografici ad altri che riprendono espedienti visivi debitori di alcuni maestri dell’arte pittorica del passato. Questa pièce dimostra come il romanzo ormai si sia ben affermato nell’immaginario collettivo e, con il passare degli anni, non perda il proprio fascino grottesco, ma si presti persino a nuove chiavi di lettura e rappresentazioni che ne evidenziano la sua assoluta qualità.
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