“Artisti di Livorno”. Caluri, predestinato…alla matita
"Diciamo che il disegno è un’attitudine che pratico da sempre, come dicevo prima. Mi aiuta a capire e interpretare la realtà esterna, e anche certe cose di me stesso"
di Anna Campani
In certi casi, quando si ama qualcosa profondamente, quando quel qualcosa lo senti dentro da sempre, non riesci a dare una collocazione temporale a quando quella passione, quel qualcosa, è iniziato. Quando quella passione è venuta fuori in modo dirompente. Quindi torni indietro così tanto che quasi non sei ancora nato, ma hai comunque una matita in mano. Chissà se qualche disegno di un Daniele all’asilo, il nostro protagonista di oggi, l’ha conservato e chissà se ogni tanto quei disegni, prima avvisaglie di un talento che sarebbe venuto fuori con il tempo, vengono guardati.
Il nostro artista di oggi che si va ad inserire nella nostra rubrica “Artisti di Livorno” è un nome e un volto conosciuto nel panorama livornese, ma non solo. Perché quella matita adesso, la tiene ben salda tra le mani e dalle sue idee, da quelle mani, vengono senza dubbio fuori piccoli capolavori, che niente hanno a che vedere con gli scarabocchi di un Daniele bambino, all’asilo, ma di cui qualcosa, forse, è rimasto.
Stiamo parlando di Daniele Caluri, in passato vignettista del nostro Vernacoliere. Creatore di personaggi che sono rimasti impressi nell’immaginario collettivo della nostra città, come Luana, anche se non collabora più da ben sette anni con il settimanale satirico.
Ti ricordi il tuo primo disegno? I primi tratti impressi in un foglio bianco?
“In realtà non ho modo di ricordarlo, perché disegno da sempre, da che ho coscienza. Sarei un mostro, a ricordarmi cose di quando a malapena stavo in piedi. Ma immagino sia stato uno scarabocchio come quello di qualunque altro infante. Un vortice, un grumo di colore, una serie di segni buttati a caso e che, nel tempo, ho imparato a organizzare”.
Tra i molti personaggi che hai creato, sei affezionato a qualcuno in modo particolare? E se si, perché?
“Ora, non vorrei apparire evasivo, ma questa è un po’ una domanda del tipo “A chi vuoi più bene? A babbo o a mamma?”. Non so rispondere, dal momento che li ho creati in momenti molto diversi e distanti fra loro, e tutti rappresentano tappe fondamentali per la mia crescita e per lo sviluppo del mestiere che mi sono costruito. Se Fava di Lesso ha rappresentato il primo approccio, anarchico e sregolato, con uno slancio creativo furioso ma ancora acerbo, con Luana la Bebisìtter ho imparato a gestire il segno, i tempi comici, il senso della vicenda, i meccanismi narrativi di base. Con Nedo ho provato a ridurre tutto ai minimi termini, giocando coi meccanismi iterativi, fino a Don Zauker, che ho creato su sceneggiature di Emiliano Pagani, e che ha rappresentato il culmine di un percorso iniziato molti anni prima (e che è tuttora in evoluzione)”.
Dentro i tuoi disegni e personaggi, quanto c’è di te?
“Ah, beh, tantissimo. Ma questo accade a tutti i disegnatori, immagino. Ognuno trasferisce cose di sé – a volte coscientemente, molto più spesso il contrario – nei personaggi a cui dà vita. Gestualità, tic, modi di dire e di fare che vanno a caratterizzare l’identità del personaggio in oggetto; ed è un bene, perché quel personaggio, alla fine, acquisirà naturalezza e vita propria. La cosa curiosa è che funziona in base al tipo di personalità che si vuol creare: nella caratterizzazione di un personaggio malvagio, per esempio, posso riversare quanto di peggio cova nella mia psiche più profonda, anche se ovviamente mai mi sognerei di metterlo in pratica. In questo senso, funziona anche come eccellente valvola di sfogo”.
La tua esperienza nella musica. Sei anche un musicista, la musica ha ispirato le tue matite?
“Lo ero, un musicista, se con questo termine si può definire uno strimpellatore di tastiere all’interno di un gruppo. Ma anche se, per mancanza di tempo, non pratico più, la musica influenza in continuazione il mio lavoro. Sto per dire una cosa apparentemente tardoromantica, quasi new age, ma in realtà mi sono accorto di come essa riesca a condizionare attivamente il tipo di segno che uso in una determinata sequenza. Mentre lavoro, mi metto ad ascoltare musica che mai mi sognerei di ascoltare nel tempo libero, o perché mi annoia mortalmente, o perché semplicemente non mi coinvolge/interessa; ma in quel momento mi è funzionale allo scopo”.
Quando hai capito che il disegno sarebbe stata la tua vita? Che potevi farcela?
“Ora, fortunatamente la vita è composta da molte altre cose, ma ci siamo capiti. Diciamo che il disegno è un’attitudine che pratico da sempre, come dicevo prima. Mi aiuta a capire e interpretare la realtà esterna, e anche certe cose di me stesso. Ed è attivo anche quando non ho una matita in mano: a volte mi fermo e osservo, uno scorcio, un dettaglio, un volto, incurante dell’eventualità di essere scambiato per un maniaco. Ebbene, in quel momento sto disegnando quella cosa mentalmente: la rubo, la archivio in un angolo del cervello, per poi utilizzarla, chissà dopo quanto tempo, in una delle sequenze di qualche mia storia. Se per “potevi farcela” intendi vivere grazie al disegno, inteso come lavoro che riuscisse a mantenermi, beh, sicuramente da quando sono entrato a far parte della Bonelli, nel 2003”.
Domanda spinosa: la satira ha un limite che non deve superare? Cosa ne pensi di Charlie? E delle vignette in merito agli avvenimenti del nostro paese?
“Guarda, su questo mi sono già espresso su FB durante i fatti, e sollevando un polverone durato per giorni, com’era prevedibile. Mi capirai se cerco di evitare di tornarci su, prima perché siamo fuori tempo massimo, e poi anche perché è un discorso davvero molto lungo e che deve tenere di conto di un sacco di variabili. A linee generali, per quanto mi riguarda, se parliamo di satira non contemplo alcun limite – etico, morale e soprattutto inerente al buon gusto (che Picasso considerava come nemico dell’arte) – che non sia già incluso nei codici civile e penale. L’unico limite è la verità; l’adesione ai fatti.L’importante, a prescindere da tutto ciò, è la libertà di poterle pubblicare, assumendosene le responsabilità”.
Dal 2008 insegni disegno. Come vedi questo ruolo? Quanto entusiasmo vedi negli studenti?
“Purtroppo insegno disegno tecnico, quindi più che entusiasmo vedo sgomento e frustrazione. Fra proiezioni ortogonali, assonometrie, sezioni e piani ribaltati, è percepito più come un incubo che altro, per tanti studenti. Ma è vero che quando uno studente riesce a superare le difficoltà e ottenere buoni risultati, la soddisfazione è di entrambi, mia e sua”.
Al di fuori del lavoro disegni? Ti lasci trasportare dalla tua passione, e se si, cosa disegni?
“Sì. Porto con me dei blocchetti e qualche strumento, matite, acquerelli, penne biro, e capita che mi metta a disegnare in momenti particolari, generalmente di ozio o di pausa. Disegno a volte quello che ho davanti, un paesaggio, una strada, persone, un oggetto; altre volte cose di fantasia”.
Qual è stata l’esperienza più emozionante per te in merito alla tua arte? Un momento della tua carriera che non dimenticherai mai.
“Stessa cosa che per il fumetto preferito. Ci sono state varie esperienze emozionanti, e quasi sempre hanno coinciso con l’inizio di qualcosa. Una nuova collaborazione, un ingaggio, la pubblicazione all’estero, l’avventura con l’autoproduzione, i primi premi vinti, il riconoscimento dei lettori. Ci sono molte cose che girano attorno a questo mestiere, così strano che non è neanche riconosciuto come tale, dallo Stato Italiano. È inevitabile che sia legato a tante di esse, proprio perché appartenenti ad ambiti diversi”.
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