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L’Uomo dal Fiore in Bocca…e non solo : quando la Morte ha il sapore di una caramella

Sabato 18 Marzo 2017 — 10:08

di Claudio Fedele

Opera di prosa tra le più brevi e concise del noto autore agrigentino, “L’Uomo dal Fiore in Bocca” è un monologo che Luigi Pirandello scrisse sotto commissione da parte di Anton Giulio Bragaglia, il quale chiese a quest’ultimo se avesse intenzione di realizzare un dramma da portare in scena per il “Teatro Sperimentale degli Indipendenti”. Il fu Pirandello non si fece attendere e così portò alla luce il celebre atto tratto da una delle innumerevoli novelle (“Per un Anno”) dal titolo: “La Morte Addosso”. Rappresentata per la prima volta il 21 Febbraio 1923 al Teatro Manzoni di Milano, questa melanconica tragedia ha messo alla prova volti noti del passato appartenenti all’ambiente teatrale, che più e più volte si sono approcciati ad essa nel corso degli anni; forse, ad oggi, una delle versioni più apprezzate è quella che fece Vittorio Gassman nel 1974. Per la conclusione della stagione legata alla prosa del Teatro Goldoni è Gabriele Lavia a portare all’attenzione del pubblico il celebre monologo pirandelliano apportando modifiche e dando una chiave di lettura inedita ed al contempo globale di quello che potremmo riassumere essere il pensiero dell’intellettuale siciliano.

Due uomini, una stazione ferroviaria del Sud Italia come tante, con le vetrate imponenti ed un orologio che sovrasta in alto coloro che passano per scendere o salire su uno dei tanti treni pronti a partire. Un essere pacifico e l’uomo dal fiore in bocca: il primo troppo occupato a correre da un binario all’altro per salire sul mezzo che lo riporterà a casa, dalle sue donne, inutilmente; l’altro, mite e solo in attesa che arrivi il suo momento, che la morte lo porti via con sé, ormai abbandonato, con quel fiore in bocca che altro non è che un tumore e con pochi mesi ancora di vita. Il dialogo, nella sala d’attesa tra i due è quasi imprescindibile e attraverso le contraddizioni e le difficoltà della vita nasce un profondo confronto che toccherà le corde dell’animo umano e dell’esistenza, arrivando a coinvolgere la vita stessa e le sue peculiarità, nel bene e nel male.

In una scenografia massiccia ed imponente, alta ben nove metri, che assume i contorni di una vecchia ferrovia degli anni ’20, dalle luci soffuse, amalgamata ad una fotografia capace di dare un gusto retrò all’insieme, sottolineando un ambiente sporco, decadente e dai contorni freddi percepibili grazie all’utilizzo di una struttura in ferro, con la presenza di un orologio, privo di lancette, di notevoli dimensioni posto al centro del palco e di ampie vetrate sporche, annerite dallo smog ed i gas di scarico, che impediscono la vista di ciò che accade oltre ad esse, in una fredda e piovosa giornata d’estate, va in scena il celebre monologo di Pirandello che Gabriele Lavia, dopo aver passato la propria vita nello studio d’altre opere di questi (tra cui I Sei Personaggi in Cerca d’Autore, Tutto per Bene, la Trappola ecc…) ed essersi cimentato in autori di rilievo quali Brecht, propone sia in veste di regista che di protagonista, a cui fanno da spalla Michele Demaria e Barbara Alesse.

Colpisce, fin dal primo istante, la soverchiante struttura e gli effetti sonori che mettono in risalto il contesto in cui è ambientata la vicenda, il treno che arriva in stazione con il suo fischio acuto fa quasi paura, così come sinistre sembrano le ombre che si muovono in secondo piano, e, nell’insieme, minuscoli appaiono i due personaggi che interagiscono l’un l’altro. La cura, tuttavia, precisa e certosina, nella realizzazione delle scenografie, degli effetti sonori e dell’utilizzo delle luci è solo l’inizio di uno spettacolo che vuole andare oltre e che non si ferma al solo monologo.

Prende, sulla scena, in questo modo, un lungo battibecco, uno scambio di battute e di monologhi di breve durata da parte dell’Uomo dal Fiore in Bocca che, al contrario di quello proposto da Gassman, non gode di una natura ferma e statuaria, imponente e sicura, ma si presenta con un’anima nevrotica, incerta e combattuta, tanto da offrire quasi un campionario di emozioni e movenze che potrebbero essere lo specchio di una lenta, angosciata, consapevolezza della propria triste sorte. Non è unicamente il protagonista di questo atto unico, a cui il “…e non solo” come sottotitolo ci dice di stare attenti a tener presente che all’interno dello spettacolo vi sono inseriti frammenti estrapolati da altre opere di Pirandello, a tenere la scena, ma anche la sua spalla, l’Uomo Pacifico (Demaria), definito tale, ma che proprio per il sentimento del contrario, puramente pirandelliano, si rivelerà di natura opposta, sempre a rincorrere treni che continuamente perderà, colmo di pacchi “pacchetti e pacchettini”. Lavia sembra voler mettere bene in risalto la figura del comprimario e fa interagire in ogni momento lo sfortunato passate con il suo alter ego sul palcoscenico, evidenziando, in questo modo, come in lui si mostri e riveli la vera natura umana: piena di contraddizioni e difficoltà, di goffaggini e ostacoli che rendono l’essere ridicolo con le sue mille comuni e quotidiane preoccupazioni.

Questa produzione offre, proprio grazie alle conoscenze del regista, uno sguardo interessante ed al contempo azzardato che assurge ad essere un’analisi generale dell’opera di Pirandello. L’uomo dal Fiore in Bocca, infatti, non si ferma al monologo, ma abbraccia innumerevoli tematiche che passano dalla vita, alle donne, al pessimismo ed alla visione personale che ognuno ha della realtà attraverso il modo in cui la percepisce. E’, nel complesso, sia una celebrazione dell’esistenza, attraverso l’esaltazione dei piccoli gesti quotidiani (quali possono essere il processo di confezionamento di un regalo) sia uno studio del pensiero dell’autore che Lavia, proprio per l’attaccamento allo scrittore siciliano, si sente in dovere di fare. Ne deriva, dunque, uno spettacolo composto da tante parti e dotato di molte sfumature, che se da un lato perde la potenza espressiva del monologo originale (agghiacciante nella sua bellezza proprio grazie alla sua brevità) dall’altro ne guadagna in una fruizione più immediata, meno concisa e più dialogata.

Nel complesso, se dovessimo guarda all’opera con mente lucida si potrebbe dire che a risentirne in modo sensibile è, paradossalmente, il testo di partenza, che viene schiacciato dalle molte analisi legate alla figura della donna, elemento che potrebbe essere sovrapposto quasi alla morte stessa per il protagonista, così come lo studio che viene fatto del matrimonio, dello scambio di ruoli tra “la moglie” ed “il marito” che, con il passare degli anni, vede la prima prendere sempre più potere ed importanza da dover pensare di chiamare lei “il moglie” e lui “la marito”. Di tanto in tanto L’Uomo dal Fiore in Bocca torna e parla con la sua struggente bellezza al pubblico, ma sono altrettante le volte in cui si perde dietro ad altri discorsi o intervalli accompagnati dal canto dei due protagonisti. E’ un compromesso, questo, che Lavia sa di dover affrontare ed un sacrificio che è consapevole di dover fare, tanto da riprendere, però, nelle battute finali, l’originale e dare a quest’ultimo lo spazio che si merita per chiudere lo spettacolo ritornando a quella struggente malinconia che, però, ha rischiato più e più volte d’essere messa in secondo piano.

“L’Uomo dal Fiore in Bocca…e non Solo” di Gabriele Lavia è un’interpretazione affascinante tratta da un testo di piccole dimensioni di Luigi Pirandello, che coglie l’occasione per trasportare il pubblico in svariati ambiti della poetica pirandelliana, facendosi carico di illustrare le molte facce di un autore, quasi a scopo divulgativo, che ha segnato in modo considerevole il teatro a livello universale nel secolo scorso. Prendendosi numerose libertà, citando E. Dickinson con quella “Finita Infinità” che alberga nell’uomo (tratta dalla poesia “Ha una sua Solitudine lo Spazio”), creando ponti e collegamenti tra più autori, cercandone i punti di contatto che vedono come comune denominatore la solitudine e l’incomunicabilità, Gabriele Lavia porta sul palco il suo Uomo dal Fiore in Bocca e nel farlo si diverte e si immedesima a tal punto nella sua controparte approcciandosi ad essa in un modo nuovo, che non emula chi l’ha già fatto in passato, dando quasi la sensazione di come egli stesso, prima dell’attore e del regista, sembri porsi dinnanzi alla morte. D’altronde l’uomo, in quanto essere senziente, come ci suggerisce Pirandello, è consapevole del proprio destino dal momento in cui prende coscienza di ciò che è e L’Uomo dal Fiore in Bocca attraverso un percorso catartico ricorda quanto sia poca cosa la vita e, per questo, quanto sia necessario apprezzarla in ogni suo aspetto, prima che la morte ci metta un “fiore in bocca”, il cui suono “lo pronunci, senta: “epitelioma. Epitelioma. Non è un suono più dolce di una caramella?” e trasformi noi tutti in un vago ricordo.

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